Jo la piazza

PAGINE 19, 20 E 21

 

E CON QUESTE PAGINE ABBIAMO CONCLUSO IL PERIODO RUSTICO

 

Un altro valleranese, che stava a Roma e che era stato impiegato al Vaticano, era: Riccardo Poleggi, fratello di Augusto il sagrestano di S. Vittore. Questi aveva un figlio: Affilio che insegnava solfeggio nel conservatorio di 5. Cecilia a Roma. Veniva lui, la moglie e un bambino piccolino di nome Riccardo, come il nonno. Quindi d’estate, la vita a Vallerano, era piu’ interessante.
Altri villeggianti che interessavano per la musica erano: Signora Italia, professoressa di pianoforte col marito Crespi, professore di flauto e una ragazza, alunna della signora Italia, con la di lei famiglia.
Mi dimenticavo di dire che la nipote di zia Elina, Agostina Narduzzi, studiava pianoforte e che poi e’ venuta una concertista.
Spesso, quando venivano al Poggio e che io stavo lavorando assieme a Cleo, mi sentiva come solfeggiavo. Tra i miei fratelli e loro si creava un’atmosfera allegra e scherzosa. Per noi era festa.
Lo zio Pietro, per Natale e per Pasqua, spesso ci spediva dei pacchi contenenti:
torroni, cose per le feste, finocchi, caramelle, dolci vari, ecc. che ci riempivano di gioia. Mentre la zia Elina ci mandava capi di vestiario che riceveva dai suoi clienti facoltosi e nobili; vestiti che facevano molto comodo per la numerosa famiglia.
Tuffi gli anni, per l’il novembre, essendo il compleanno del Re, la banda, verso le 19 o 20, eseguiva, in piazza, alcune marce con gli inni nazionali, compresa la marcia reale. Siccome l’il novembre era pure 5. Martino, lo zio Martino portava una damigiana di vino e la faceva bere a tutta la banda. Lo zio Martino, essendo stato sergente maggiore nell’esercito e aveva, come tanti, fatto la guerra, era divenuto istruttore pre-militare. Suonava benino l’organetto e spesso, durante il periodo di carnevale, si ballava a casa nostra o a casa sua. Anche lui aveva sei figli e ci divertivamo molto.
Fu l’undici novembre del 1935 che, dopo aver suonato per il compleanno del Re, il maestro Otello Benedetti mi disse che c’era un concorso a Roma, per andare a

studiare la musica e che il bando di questo concorso ce l’aveva il maestro Ercoli, col quale io ci avevo frequentato la quarta e la quinta elementare. Per me, evadere da Vallerano, era stato sempre un mio sogno. Non volevo, a tutti i costi, restare a fare la vita del contadino, piena di stenti e di rinunce. Alla meno peggio, pensavo, mi sarei, da grande, arruolato nei carabinieri. Pero’ di studiare musica era il mio sogno principale ed e’ percio’ che, quando Otello mi parlo’ di questo concorso, mi diedi subito da fare. Il giorno dopo, subito andai dal maestro Ercoli, il quale aveva il bando del concorso. Feci subito la domanda e mi misi di nuovo a studiare.
Di studiare musica non avevo smesso mai: oltre all’oboe, avevo studiato, con Otello, un po’ d’armonia, avevo letto il libro sulla storia della musica. Allora andai dalla maestra Forti a prendere lezioni d’italiano e nello stesso tempo col marito, che era anche, oltre direttore didattico, maestro di banda, lezioni d’istrumento, l’oboe. GiA’ avevo composto una marcia militare e una specie di sinfonia che, una volta, assieme ad alcuni musicanti, provai a casa di Terzino Antonozzi, casa che, nel 1970, dovevo acquistare. Tra questi musicanti vi era: Querino Paesani, Vittorio Forliti, lo stesso Terzino, che suonava il flauto e altri con vari strumenti. Assieme alla musica mi dilettavo pure con la pittura: giA’ avevo dipinto un S. Giuseppe falegname per metterlo nella bottega del compare Santino Narduzzi, che faceva il falegname e che era stato alunno del babbo. A pagamento, avevo dipinto diversi calici con l’ostia che si mettevano sul petto dei compagni della confraternita del sacramento e che me li pagarono due lire l’uno.
Come ripeto, feci la domanda corredata da tutti i documenti richiesti e attesi, fiducioso, la chiamata per gli esami. La stessa domanda fu fatta anche da un altro musicante che suonava il trombone e che si chiamava Bruno Antonimi e aveva un anno meno di me.
Durante questa attesa, i sogni non mancavano; facevo castelli in aria e mi vedevo giA’ professore, maestro ecc. Mi sentivo, finalmente, di poter uscire dal paese e poter crearmi un avvenire diverso.
Durante l’estate del ‘36, mio padre invito’ a casa il M° Attilio Poleggi per sentirmi suonare ed avere un giudizio. Mi senti’ suonare e rimase molto soddisfatto, facendomi coraggio per il concorso.
Nel mentre non tralasciavo di esercitare la pittura: fu in questa estate che dipinsi una S. Cecilia, copia di quella di Raffaello e altri quadretti. Passo’ diverso tempo dalla domanda e finalmente, nel mese di settembre ‘36, arrivo’ una lettera dove mi si diceva di presentarmi il giorno sedici ottobre a Roma, per sostenere gli esami. Prima pero’ avrei dovuto presentarmi a Viterbo, nella sede del fascio, per avere una divisa nuova da

avanguardista. Il giorno quindici di ottobre andai a Viterbo e li’ trovai una quindicina di ragazzi, tutti concorrenti per Roma. Mi sentivo molto intimidito: non ero uscito mai solo da Vallerano, e me ne stavo zitto a sentire gli altri: chi diceva di essere stato preparato da uno zio professore a Roma, chi aveva raccomandazioni da Tizio, chi da Caio, di oboi vi erano due o tre. Io pensavo: cosa vado a fare?
Il quindici sera, col treno delle sette, accompagnato da Otello, partii per Roma. Dovevo presentarmi l’indomani alla Caserma Cadorna al Foro Mussolini. Pensando di essere piu’ vicini, si smonto’ alla stazione dell’Acqua Acetosa e da li’, a piedi, arrivammo al Foro Mussolini. Ci presentammo all’accademia di educazione fisica dove ci dissero che la Caserma Cadorna era circa cinquecento metri piu’ avanti. Era molto buio e, costeggiando lo Stadio detto dei Marmi, arrivammo finalmente, in vista di questa, benedetta, caserma: una vecchia costruzione ai piedi di Monte Mario. Fui introdotto dove giA’ vi erano arrivati da tutta Italia. Otello se ne ando’ e ritorno’ nel pomeriggio del giorno dopo insieme al M.° Poleggi.
Gli esami consistettero in una prova di solfeggio e un’altra con lo strumento. Il maestro Emilio Tufacchi, preposto a maestro direttore della banda musicale che si sarebbe costituita in seno alla scuola di musica e che in precedenza c’aveva parlato Poleggi; mi disse, dopo aver suonato l’oboe, se mi sarebbe piaciuto suonare il fagotto. A dir la veritA’, il fagotto, non solo non lo conoscevo ma non lo avevo mai sentito nominare. Siccome avevo giA’ visto e sentito che di suonatori di oboe vi erano molti e bravissimi, quasi tutti del convitto di Salerno, dissi che mi sarebbe piaciuto e che ero d’accordo, cosi’ fui ammesso.
La sera, Otello, assieme ad Adelfino Forliti e ad Alberto Romoli, cognato di Otello, mi porto’ al cinema a vedere un film e dopo aver dormito, la notte, in casa di Alberto, la sera del giorno dopo, si ritorno’ a Vallerano.
Per un po’ di tempo sentivo, nella testa, il rumore dei tram.
Faccio presente che di tutti quelli che avevano concorso, della provincia di Viterbo, venni ammesso solamente io. Venne, sul “Messaggero”, un articolo, fatto dall’avvocato Poscia, dal titolo: “Un avanguardista di Vallerano che si fa onore!”. Ci furono dei pettegolezzi circa l’altro concorrente di Vallerano, specialmente da parte della madre di questi: la Nina, soprannominata “di Pietroantonio”, la quale si lamentava perché suo figlio non era stato raccomandato. Il fatto era che di tromboni ci stavano dei ragazzi molto bravi.
I giorni passavano e la chiamata, definitiva, non arrivava. Io ero sulle spine. Nel mentre seguitavo a lavorare, col babbo e i fratelli, con la paura che, la tanto attesa chiamata, non dovesse arrivare.

Un giorno, credo che sia stato nei primi di novembre, mentre eravamo a vangare, io, Cleo e il babbo, al Paradaio, vedo arrivare la mamma con in testa il “cirigno” dove vi era il desinare, e da lontano vidi subito un lembo di busta rossa che usciva dalla tasca sinistra del vestito. Subito intuii cosa fosse: era la tanto attesa chiamata per l’accademia.
Mi dovevo presentare la mattina del giorno 23 novembre, portando il corredo che comprendeva: calze, maglie, mutande, fazzoletti e soprattutto, quello che mi impressiono’, furono due pigiama. Dico impressiono’, perché non si sapeva che cosa fossero. Quando, alfine, si seppe, me li cuci’ la Lina Chiricozzi, del “bustino”, che faceva la sarta.
Lascio immaginare la mia contentezza: non stavo piu’ nella pelle. Mi ricordo che diedi l’ultima vangata e ci feci una croce con la mano, dicendo, alla vanga, addio per sempre.
Il maestro Poleggi mi disse che, d’ora in avanti, la mia vita sarebbe cambiata totalmente: sarei vissuto da signore, intendeva dire che avrei fatto la vita come quella di un ricco, pensando solo a studiare.
Il ventidue novembre, giorno di Santa Cecilia, ci fu nel salone delle scuole comunali, oggi municipio, il tradizionale pranzo per tutti i componenti la banda musicale, invitati le principali autoritA’ del paese, compreso il podestA’, Daniele Marcucci. Ci stavano pure molti invitati, amici dei musicanti. Con noi vi erano zio Martino e zio Annunziato. Ogni musicante si faceva portare, dalla moglie o chi per lei, il pranzo giA’ bello e pronto. Per noi, lo porto’ la mamma con il solito “cirigno”.
Durante il pranzo ci furono molti brindisi e discorsi; quello che piu’ mi interesso’ fu quello fatto da Arnaldo Poleggi, che suonava, in banda, i piatti e che era cugino del Maestro Attilio. Questo, oltre al brindisi finale fece un bel discorso dove, tra l’altro, elogio’ me per aver vinto il concorso a Roma e che la sera stessa sarei partito per andare a studiare musica a Roma. Anche Don Secondo, parroco della chiesa di S. Vittore, ricordo che fece un bel discorso con il brindisi finale; cosi’ pure brindo’ il compare Raimondo Paesani.
La sera sarei dovuto partire col treno delle 19. in piazza si formo’ un concertino con in testa Querino Paesani e altri musicanti che, suonando ballabili e canzoni, mi accompagno’ alla stazione.
Con me vi era la mamma, il babbo, tutti i fratelli e sorelle e molti parenti e altra gente. Insomma la stazione era affollata. Io ero accompagnato da Luigi Chiricozzi che era impiegato a Roma quale fatturino nei tram, e che aveva sposato una figlia di zio Pietro, Maria, e che abitava nella casa del suocero in Via Giulio Cesare 183. Premetto che, per fare tutto il corredo ci vollero diversi soldi che il babbo non aveva e si penso’,

allora, di scrivere una lettera quale supplica che fece mio cugino Giuseppe Narduzzi figlio della prima figlia di noima Santina, Clementina, il quale era in seminario. Lettera che io ricopiai e portai a leggere alle famiglie piu’ facoltose del paese. Ricordo che Guglielmo J anni contribui’ con lire cento, il dottor Starna con £ 50, degli altri non ricordo, ma molti contribuirono. Dico questo per far capire che la mia famiglia, molto numerosa e onesta, era una delle piu’ povere del paese: otto figli in un periodo molto povero per tutti.
Arrivato a Roma, pernottai a casa di zio Pietro e la mattina dopo, Luigi mi accompagno’ alla Caserma Cadorna. Vicino alla caserma stavano facendo i sondaggi per la costruzione per il Ministero degli Esteri e diversa gente veniva a cercare, per terra, il piombo conficcatisi durante le esercitazioni di tiro, essendoci stato, in quel posto, il tiro a segno. Luigi mi consegno’ al personale addetto e incomincio’, per me, la vita d’accademia che duro’ circa cinque anni e due mesi, cioe’ quando fui arruolato, assieme a mio fratello Cleo, nella banda musicale presidiarla dell’ottantuno fanteria, diretta dal maestro Edoardo Castucci.

 

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